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Non solo di alberi di legno e di rigogliosi arbusti si decora la natura. Non sempre il tronco è il
frutto di un seme piantato nel terreno. Con la serie L’Albero della Vita, il maestro Antonio Balbi
ci invita a scoprire un altro frutto della natura, una creazione di Madre Terra che è germogliata
per altra via e che per differente cammino è diventata elemento del paesaggio.
Il maestro di Roccagloriosa prende spunto dal Camino delle Fate, da quegli strani pinnacoli
conici, sormontati da cappucci di tufo vulcanico dell’antico Monte Argeo, che svettano nella
valle, tra canyon e pareti di roccia modellate dalla natura, per indagare l’origine delle cose.
Nell’Albero della Vita, questi obelischi di pietra del tutto simili a quelli che decorano l’altopiano
della Cappadocia, sono lo strumento di analisi, mentre la reale forza della vita, l’oggetto di
studio.
Ma, se l’origine delle cose è quel che si vuole indagare, allora occorre partire dal principio, ci
suggerisce il Balbi. Tuttavia, e qui sta il punto, l’inizio di questo viaggio non è ben chiaro. Il
“c’era una volta” delle favole, purtroppo, non ci può qui aiutare. Occorre fare affidamento su
un altro percorso. Dobbiamo indagare uno strumento e la sua reale funzione; capire quel che
consegue all’invenzione anatomica di un corpo e al compito primario che a quella carne è stato
affidato. L’inizio che non troviamo si nasconde abilmente tra una parto, la nascita di una nuova
vita che si aggiunge a quelle degli altri, e ciò che ha reso possibile quella nuova nascita.
Genitore è chi genera un figlio, genitale è la capacità di poter procreare, l’attitudine psicofisica
senza la quale non si apre quel varco capace di far germogliare su questo mondo le vite di nuovi
individui. L’Albero del Pane è dunque la celebrazione di questa fortuna, la raffigurazione di ciò
che è stato necessario per permetterci di essere qui, di ciò che servirà ancora per tramandare la
nostra tra le innumerevoli forme di vita che impreziosiscono la Terra.
Il balbismo, anche in questo caso, sembra suggerirci l’importanza dell’attenerci alla natura, alle
sue leggi, che sono anche dichiarazioni di volontà; a quanto in essa vi è di semplice, di piccolo,
tanto che è invisibile ai più, ma può d’un fiato farsi grande e incommensurabile. Se si prova
quest’amore per le cose umili, e con semplicità si cerca di amare il senso di ciò che sembra
povero, allora tutto ci diventerà più facile, più uniforme, quasi più conciliante; forse non
nell’intelletto, che stupito ancora indugia, ma per certo nella nostra più intima coscienza e
conoscenza.
Per gli uomini, ci suggerisce il Balbi, tutto quel che riguarda il senso della vita appartiene a un
assoluto indifferenziato che non si riesce nemmeno a scrutare. Siamo così nuovi a ogni inizio,
a ogni possibilità, che nemmeno riusciamo a capire che le risposte alle nostre domande
appartengono a un’altra dimensione, a un tempo che ancora non stiamo vivendo. Occorre
essere pazienti verso l’insoluto che ci alberga nella testa, a tutto quel florilegio di pensieri che
si rincorrono senza sosta, “del chi siamo, dove andiamo e, sopratutto, del perché.” Questo
sembra il momento di amare le domande, di proteggerle dentro ai libri e alle opere d’arte, di
non cercare ora il significato di una lingua tanto estranea al nostro linguaggio di umani.

Riguardo all’origine delle cose, non occorre impuntarsi nel tentativo vano e per certo fallace
d’individuare ora le risposte: queste non ci saranno date perché non siamo in grado ancora di
viverle o di capirle, che poi è la stessa cosa.
Ora è il tempo di vivere le domande, ci rassicura il maestro di Roccagloriosa. Solo così, a poco a
poco, generazione dopo generazione per millenni ancora, ci ritroveremo un giorno lontano a
vivere le risposte che oggi supplichiamo senza sosta e senza soddisfazione. Il Balbi, quale
osservatore di quel che maggiormente conta, della sua condizione di umano e con la sua della
nostra, è convinto che in noi ci sia la possibilità d'intuire, d'indagare a fondo, di educarci alla
comprensione, ma tutte queste capacità, da sole, non ci porteranno a porre fine alle domande,
al chiacchiericcio incessante che sembra non trovare un termine ultimo al suo eterno consiglio.
Per l’artista la vita è difficile, ma il difficile è il suo compito. Tutto quel che è serio è difficile,
l’arte ancora di più e tutto è tremendamente serio se lo si analizza in continuazione. Anche
questo Albero della Vita potrebbe apparire troppo serio: un’attrazione per i curiosi, un affronto
per i benpensanti, la forma che un artista stanco ha dato alla sua scarsità d'idee, per chi
scioglie ogni cosa nell’acido della sua superficialità.
Ma l’Albero della Vita è qualcosa di diverso. Quell’immagine esprime la potenza della natura, è
il simbolo della forza ricreatrice e riproduttrice, la forza che scaturisce da un corpo vivo come
una scossa rigeneratrice, perché un altro corpo vivo possa prendersi cura di quella fiammella e
trasformarla in un fuoco, vivo e autonomo anch'esso. Così ci si passa il testimone, così corre per
il mondo la fiamma dell’umanità, sempre in gara con le altre forme di vita che in questo pianeta
giocano con noi.
Ma anche i giochi sono una cosa seria, un qualcosa fatto di regole e di traguardi da conquistare
a fatica. Allora anche il gioco per eccellenza, uno tra i più grandi piaceri che la nostra natura ci
ha regalato, dev’essere vissuto con consapevolezza. Per il Balbi, la voluttà del corpo, la pienezza
del piacere fisico è un’esperienza dei sensi, non diversamente dal puro sguardo o dalla pura
sensazione di cui un bel frutto colma la lingua; è una esperienza grande e senza fine che ci è
data, una conoscenza del mondo, lo splendore e lo stupore di conoscere la nostra condizione di
umani attraverso i sensi. E non accoglierla è un male; male è anche che molti fanno di
quest’esperienza un cattivo uso, e la sprecano e la impiegano come stimolo nei punti stanchi
della loro vita e come distrazione, o come raccoglimento per scalare effimeri apogei.
Ma il balbismo si è già altrove e sovente fatto osservatore di quest’attitudine a tradurre tutto in
linguaggio d’azzardo, di quest’inclinazione che hanno gli uomini a confondere la semplicità con
la banalità, a svuotare di significato ciò che è grande e perfetto perché alla potata di tutti,
pretendendo di spiegare ciò che nessuno è in grado di comprendere affidandosi a un linguaggio
di formule tanto vuote quanto ridicole.
Gli uomini d’altronde hanno mutato anche altrove l’ordine della natura e la sua semplicità,
frutto di divina grandezza, e lo hanno fatto in tanti modi e con tanta arroganza da essersi
condannati a una continua ricerca di quell’equilibrio che un tempo avevano ricevuto in dono
ma che hanno ora perduto. Come gli incontri intimi è un piacere anche il cibo, ed è facile anche

qui osservare come siamo riusciti a mutare la natura del mangiare: l’indigenza da un alto e
l’abbondanza dall’altro hanno turbato la chiarezza di questo bisogno, e torbidi si sono anche
fatti tutti i bisogni profondi, semplici, in cui la vita si rinnova.
Ma l’Albero della Vita non ha mai perso il suo equilibrio e il suo insegnamento. E’ lo stesso che
ci viene riproposto dal maestro di Roccagloriosa e che non muta, da quando il vendo della
Cappadocia ha scolpito nei secoli questi enormi simboli di fertilità. Quel simbolo è oggi in grado
di ricordarci che ogni bellezza negli animali e nelle piante è sommessa, è duratura forma di
amore e desiderio. Dalla sua altezza, l’Albero della Vita ci invita a vedere come animali e piante
si uniscono pazientemente e si moltiplicano incessantemente, non solo per il piacere fisico che
provano, ma inchinandosi a un desiderio più grande di loro che tutti impegna nel grande gioco
di conservare pieno di vita questo pianeta.
L’Albero della Vita è anche il Totem e Tabù studiato da Freud, il gigante frutto di ammirazione
e invidia ai cui piedi s’inginocchiano le masse e l’oggetto di un desiderio proibito, scandaloso,
che non può essere dichiarato in pubblico ma che è tanto amato in privato. Lo è per ogni
individuo, di qualsiasi genere seppur con funzioni diverse: le femmine per il piacere che
procura, i maschi per il vanto che di quel lembo di carne possono fare.
L’oscillazione di questa altalena, tra irresistibile richiamo ancestrale e vergognoso organo del
corpo maschile, è l’equilibrio che, attraverso questa produzione di stampe, il maestro Antonio
Balbi auspica di trovare. Una riverenza dovuta alla nostra fecondità, che è una sola, che essa
appaia spirituale o fisica; poiché anche la creazione spirituale trae origine da quella fisica, è
della stessa sua natura, è solo una più sommessa, estatica ed eterna replica della voluttà del
corpo.
Per il balbismo il pensiero di essere creatore, di generare, di plasmare un corpo attraverso il
proprio, è la manifestazione della forza della natura dentro ognuno di noi; non ci sarebbe nulla
senza la sua costante, grande conferma e realizzazione nel mondo, nulla senza i mille consensi
di cose e animali. L’Albero della Vita è il simbolo della potenza vitale che ci ha permesso di
arrivare fin qui e che ci permetterà di andare oltre, in un domani in cui molte cose
cambieranno, ma non certo quel tronco di pietra sarà che sempre lì a tramandare conoscenza.


Giovanni Rodini