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Una tela è il perimetro di un’immagine. Come un campo coltivato, ha con i terreni limitrofi dei confini ben definiti. Ha anche gli stessi ritmi che portano il seme a mutarsi in pianta. Il maestro Antonio Balbi da Roccagloriosa è delle sue tele un contadino attento. I ritmi del lavoro dei campi, tra aratura, semina, irrigazione e raccolto sono scanditi dalla fatica di chi se ne prende cura. Allo stesso modo anche le fasi che portano un rettangolo di stoffa inchiodato a una cornice a divenire un’opera d’arte, seguono un ritmo ben definito.

Ma una tela è anche un antro, un grembo, un ventre dentro al quale cresce o abortisce quel che lì vive in nuce. Il maestro Balbi è dunque l’artefice di una nuova vita. Egli è l’ostetrico che, dopo aver fecondato la tela bianca, educa l’immagine e con i suoi gesti plasma forme e colori, la materia tutta, perché riesca a restituire ai suoi osservatori ciò che è venuto a fargli visita in sogno.

I segmenti di quel linguaggio geometrico che, tra luci e ombre, finisce per rivestire di carne acrilica ciò che resta di un viaggio oltre il confine delle cose, sono molto simili ai segni, ai gesti, alla danza di chi compie un rito propiziatorio, perché abbia buona fortuna e solido corpo la vita che è oggetto di quella preghiera.

Il balbismo coniuga questa visione dell’arte, come fecondazione, coltivazione e ritmo ciclico della natura, nella serie di Mastro 30 con la chitarra in mano.

Ma per comprenderne le ragioni e la portata di questa produzione, occorre fare un viaggio dentro un altro ventre, un grembo naturale che si fa largo dentro la roccia e che è stato scoperto nel secolo scorso nel sottosuolo salentino. Si tratta dell’antro di Enea, una grotta naturale costiera che prende anche il nome di Grotta dei cervi. Le pareti di questo grembo di roccia nel Salento sono tutte ricoperte da incisioni rupestri, da disegni che descrivono operazioni di caccia, di vita quotidiana di un tempo lontano, quando la scrittura ancora non esisteva e tutto si raccontava per immagini.

Il maestro di Roccagloriosa ha deciso di venire fin qui nella maniera che gli è più naturale, quella che gli permette di muoversi senza uscire di casa o di sbirciare dentro al mondo anche ad occhi chiusi.

Per chi ha passato la sua vita a ricercare nuovi percorsi e ha poi sentito la necessità di raccontare per immagini i nuovi cammini scoperti, ritrovarsi mentalmente in questo tempio del neolitico, equivale a lanciare un sasso nell’acqua. Stimolando il liquido col solido si da vita a centri concentrici che si allargano come orbite di pianeti persi nel vuoto. Tutto il microcosmo sarà spettatore del suo spettacolo e l’universo darà vita al suo girotondo fino a quando queste orbite lentamente spireranno e annegheranno dentro all’acqua a cui son state ribelli. Ma prima che tutto vada perduto e che di questo piccolo universo, come ruga d’acqua, non resti memoria, occorre che un paio d’occhi ne siano testimoni e riescano a trasformare quest’apocalisse in narrazione.

Il Balbi sa bene che la narrazione orale, finché rimane sulle bocche, non costituisce scienza. Lo sa perché glielo insegnano le pitture rupestri che si rincorrono lungo queste pareti. Lo sa perché in questo suo viaggio dentro alla “Cappella Sistina del neolitico” si è presentata a lui l’Archeologia e di sé ha detto di essere un ragionamento attorno all’antichità. Da tutto questo ragionare occorre trarre insegnamento e la lezione impartita oggi è che il miglior modo per far progredire un’arte è ricondurla al suo principio.

Per questo motivo, da questo viaggio dentro ai tre corridoi antichi di Porto Badisco, nasce una serie di tele intitolate Mastro 30 con la chitarra in mano. Questa è l’immagine che il maestro di Roccagloriosa ha riportato con sé una volta riemerso dalle profondità salentine. Là, nel ventre umido della terra, i pittogrammi sono stati disegnati tra il 4000 e 3000 prima di Cristo. Qualcuno ha ritratto il suo mondo in guano di pipistrello e ocra rossa, raffigurando forme geometriche, umane e animali.

Oggi, usando l’acrilico con una tecnica ad effetto 3D inventata dal Balbi, rivivono tutte quelle antiche geometrie. Ma il maestro di Roccagloriosa non ha optato per un pittogramma realmente esistente, non il famosissimo “Dio che balla” (o “lo stregone danzante”), e nemmeno la figura di un cervo, animale che ricopre parecchi metri di roccia, tanto da dare il nome all’intero sito paleolitico.

L’immagine estratta dal sito sotterraneo è la sintesi di tutto quel che là dentro si anima quando nessuno è lì a guardare. Si tratta della figura di un uomo, seduto a gambe incrociate, che suona uno strumento a corde. Quello strumento è il suo stesso fallo, ridisegnato in proporzioni tali da ricordare una chitarra.

Questo ciclo di coloratissime tele è pieno di contenuti, espressi pienamente in immagini arcaiche.

Si tratta di una pittura simbolica che rende evidente come l’antico non sia poi molto cambiato nel divenire moderno, tanto che ancora esiste il concetto di uomo alfa, di capo branco, di maschio dominante. Questo pater familias ante litteram non ha dunque solo una valenza evocativa, non è il solo richiamo di un qualcosa che prima c’era e oggi è scomparso. Si tratta, invero, di una lucida rappresentazione del mondo in cui ancora viviamo, degli impulsi che lo animano, del ritratto di una divinità antica che ancora ha molti seguaci, seppur silenziosi o inconsapevoli.

La musica suonata da Mastro 30 è un elemento centrale. E’ il ritmo, il canone, il suono che scandisce lo spazio e il tempo, sia dentro che fuori dalla tela. La melodia di questa divinità balbista ci rivela le note che animano quella danza immobile che, senza sapere, danziamo tutti. L’enorme fallo, che funge da strumento a corde, ha lo stesso potere dei flauti con cui in oriente s’incantano i serpenti. Un suono che seduce come il canto delle sirene. Con quegli accordi e arpeggi, Mastro 30 profuma l’aria con una musica che diventa irresistibile, un suono che ammaglia e al quale nessuno è più in grado di sottrarsi. E così dev’essere, perché il richiamo in note del dio della fertilità balbista, è un invito all’amore, alla procreazione, al vincere la morte generando nuova vita. E’ l’impulso che tutti ci governa e al quale nessuno riesce a sottrarsi.

Secondo un antico quesito accademico che giunge florido ancora in età romana, in molti si sono domandati che cosa cantassero realmente le sirene. Quale fosse il suono delle loro voci e per quale motivo quella melodia fosse capace di morte. Il mistero continua nell’opera del maestro di Roccagloriosa, ma è diverso l’elemento teleologico: le sirene ammagliavano i marinai, tanto da indurli a buttarsi a mare per raggiungerle a nuoto, costringendoli così a perire per annegamento. Mastro 30, dal canto suo, ammaglia l’osservatore con il solo scopo di invitarlo all’amore.

Non c’è risposta all’enigma che accompagna il canto delle sirene. Nessuno è in grado di dire con quale musica trasformassero gli uomini in prede, perché nemmeno Omero lo rivela nel suo poema. In molti ci hanno provato, ma si sono tutti arresi a non avere soluzione certa.

Possiamo però cercare di capire quale sia la musica o la promessa che attraverso essa Mastro 30 rivolge agli uomini. Per certo il Balbi non si riferisce al solo amore sessuale. Certamente la dimensione carnale, fisica, non manca. Siamo al cospetto del dio della fertilità, della divinità che scandisce quel complicato processo che porta in ogni stagione la vita a colonizzare il pianeta. Mastro 30 non nasconde la sua nudità, la esibisce e ne fa lo strumento di richiamo, la chitarra il cui suono già da lontano attira l’orecchio del passante.

Possiamo sentire nell’aria qualcosa che scopriremo soltanto dopo con gli occhi. La presenza del Mastro 30 balbista, infatti, si intravvede prima che gli occhi ce lo svelino. E’ come un sesto senso, come un richiamo ancestrale che non sappiamo spiegare, ma che si rivela irresistibile. La nostra forza di volontà nulla può contro la forza di quelle note. E’ uno scontro di volontà che vede la potenza sessuale prevalere contro la nostra capacità di astenerci dal consumare per elevarci a un’esistenza di sole anime, senza un corpo fisico. E’ il tributo che siamo costretti a rendere a quell’antica divinità che non fa prigionieri o sconti di stagione.

Ma c’è molto di più di questo. Se a parlare fosse Cicerone, egli ci rivelerebbe che la note che colorano questa produzione del Balbi sono invero una promessa di conoscenza. Una promessa molto simile, dunque, a quella che attirò Ulisse durante il suo incontro con le sirene, ma che viene diversamente esaudita dalla divinità del maestro di Roccagloriosa. Nel poema omerico, è punito con la morte chi troppo vuol sapere, nel balbismo è ricompensato con il piacere sessuale e ancor di più con quello intellettuale, chiunque si rivolga a Mastro 30 per interrogarlo sulla umana nostra natura.

La musica di questo pittogramma di paste acriliche è sottile, persuasiva, seducente e svela un legame inscindibile tra amore e morte. Ecco l’insegnamento del Balbi! Tutto quello che si oppone all’amore, tutto quello che vuol vivere lontano dalle sue ali, è morte. L’opposto dell’amore non è dunque l’odio, ma la cessazione perpetua della propria esistenza. La morte è tutto quello spazio di vita terrena in cui si dice no all’amore, che non è solo un incontro di sessi, ma un incontro con il piacere universalmente inteso. Il piacere del cibo, che nutre e ci tiene in vita, quello della conoscenza, che in altra forma ci nutre e migliora la nostra esistenza, il piacere dell’amicizia, che regala senso alla nostra vita, fino al piacere enorme dei gesti consueti.

Questo celebra il Balbi con il suo dio della fertilità. Non solo il potere di ingravidare e concepire, non solo il piacere orgasmico che il sesso ci regala, nemmeno solo il piacere che deriva dal possedere o dall’essere posseduti. Si tratta del piacere più elementare, di quello che è peccato rifiutare: il piacere di vivere. Il piacere più elementare viene così perseguito dal maestro di Roccagloriosa con uno strumento altrettanto elementare: la musica. Quel che il Balbi ci comunica è che, come l’arte, anche la musica non richiede polverosa erudizione per essere compresa, è un linguaggio universale che attraversa tutta la storia di tutte le civiltà, il binomio che con il cinema si sublima, là dove musica e immagine si fondono insieme.

Portando a un punto fermo l’evidente parallelismo tra il Balbi e Omero, ci spingiamo a concludere che la morte inflitta dalle sirene e la vita regalata da Mastro 30 potrebbero in questo modo influenzare le loro diverse melodie: mentre la divinità balbista suona una musica che mette d’accordo tutti, nel senso che accorda l’animo di ognuno sulla frequenza del piacere assoluto, quello delle sirene potrebbe invero essere il più spaventoso dei canti: il silenzio. Il nulla che fagocita quel che promette.

Mantenendo la sua promessa, il Mastro 30 del maestro Antonio Balbi si rivela per quello che realmente è: un dio della fecondità, dell’abbondanza, ma sopratutto l’indice divino che nessuno addita ma che paternamente ti indica da che parte sta il piacere, l’unico sentimento che devi al mondo per aver ricevuto la vita in dono.

Giovanni Rodini