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Del nostro tempo, dobbiamo dire con dispiacere che appalesa i chiari sintomi di una grave spersonalizzazione tanto degli individui quanto dei valori che tra essi si pretendono condivisi.

Cercare di fare arte nell’era della globalizzazione è un’impresa faticosa, che dev’essere portata avanti cercando nuove chiavi di lettura del tempo che stiamo vivendo, nuove angolazioni e contraddizioni in un contesto storico che ricerca l'appiattimento e l’annullamento delle differenze e degli inevitabili contrasti.

Il maestro Antonio Balbi affronta il tema della serialità e della ripetizione creando una nuova icona pop e riproponendola in differenti contesti, artistici e storici, ben lontani da noi. Da qui prende vita la sua serie Polifemo nelle tele dei grandi maestri del ‘700, dove una delle sue creazioni più riuscite viene ricontestualizzata attraverso un meccanismo di sostituzione che agisce sui più famosi capolavori del passato, sottraendo la figura principale e cambiandola con una nuova maschera che in ragione della sua presenza conferisce un nuovo significato al risultato finale.

Di questi sperimenti si nutre volentieri il balbismo, la ricerca della vera natura delle cose attraverso chiavi di lettura inedite, percorsi alternativi che conducono a una maggiore comprensione di questa realtà sempre più virtuale ed effimera che stiamo vivendo, per non dire subendo.

Nel suo Il malessere della cultura, Sigmund Freud paragonava la psiche umana alla città di Roma. La stratificazione e la compresenza simultanea degli strati, l’essere l’Urbe strutturata come un condominio dove il nuovo piano si fonda sui precedenti e lentamente diventa fondamento di quelli che sopra verranno costruiti, ci introduce al concetto di icona come proposto dal Balbi.

“Immaginavo”, scrive Freud, “che essa (la città di Roma), non sia un luogo di abitazioni umane, ma un essere psichico dal passato ricco e lontano, in cui nulla di ciò che una volta è stato può perdersi” e in cui il passato e il presente coesistono nello stesso tempo.

Se questo può dirsi della capitale d’Italia, allora ben può valere per la storia dell’arte e dell’umanità che essa nei secoli racconta. L’iconografia del Balbi diventa allora qualcosa di più di una semplice operazione commerciale, di una suggestione proposta all’osservatore e, a ben vedere, si trasforma in una macchina del tempo che strato dopo strato penetra un pianeta dalle sembianze di una cipolla e ripropone la maschera dell’uomo in ogni livello del tempo e dello spazio.

Ecco allora che la ripetizione e la serialità, tornano protagoniste nella produzione artistica del Balbi, seppur in una chiave inedita e ricca di implicazioni. Per il maestro di Roccagloriosa la vita è in parte ripetizione. Lo è nel susseguirsi uguale di giorno e notte, nella ripetizione di azioni famigliari che scandiscono il nostro tempo e i nostri spazi. Lo è, a un livello più infantile, in tutte le favole che ci raccontavano da bambini, che si ripetevano sempre uguali, perché noi non volevamo che fabula o intreccio venissero cambiati. Quella reiterazione narrativa creava tra noi e i personaggi un legame profondo che volevamo immutabile.

Divenuti più grandi sono state le trasmissioni televisive, con le loro sigle di apertura e chiusura, con il ripetersi di un copione che era sempre lo stesso, la sfida dei partecipanti e la proclamazione di un vincitore. La ripetizione delle serie televisive, dei remake cinematografici, dove a migliaia riempiono le sale per vedere una storia che già conoscono a memoria, con il solo gusto di sentirsela ripetere. Per tacer di quel che accade in ambienti molto più elitari, come i grandi teatri d’opera, dove al netto di tutto, se va in scena la Traviata, tutti sanno che Violetta morirà. Ma non per questo si rinuncia a esserne spettatori.

Sul piano pratico la produzione di Polifemo nelle tele dei grandi maestri del ‘700 si traduce in una serie di quadri famosissimi, come la Gioconda, la Ragazza con l'orecchino di perla, la Dama con l’ermellino, i Mangiatori di patate, dove tutte le figure sono sostituite con un Polifemo. Il risultato è quello di un’icona pop che irrompe dentro alle cornici di tele preziose e propone un nuovo significato, una nuova chiave di lettura a quei capolavori. Per capire quale sia il messaggio di quest’operazione artistica, dobbiamo farci alcune domande.

Perché l’icona del maestro di Roccagloriosa ha le forme di Polifemo? Perché tra le tante figure mitologiche a cui avrebbe potuto attingere, il Balbi ha scelto uno dei tanti nemici sconfitti da Ulisse? Perché non scegliere direttamente Odisseo, l’eroe famoso per astuzia e feroce furbizia, il vincente per antonomasia che, anche se avverso agli Dei, riuscì a ribaciare la sua “petrosa Itaca”?

In parte la risposta è contenuta nella domanda, in parte occorre indagare oltre. Polifemo è uno tra i tanti che cadranno davanti all’eroe del mondo antico. Uno dei tanti, quasi il prodotto di una catena di montaggio che sputa fuori merce difettosa, carne destinata a essere sacrificata per poter innalzare il protagonista a mito.

Ulisse è il personaggio su cui ruota tutta la narrazione antica, l’eroe che tutto può, l’uomo dal fascino che promana, suggestiona e articola la narrazione di un intero mondo. Tanto è fatto a sembianza di divinità, che ben gli calza la terzina con cui Dante parla di Dio: “O luce etterna che sola in te sidi, sola t’intendi, e da te intelletta e intedente te ami e arridi!”.

Ulisse non ha bisogno di altri, se non per dimostrare la sua superiorità. La sua capacità di vincere chiunque si alimenta da sola e tutto piega davanti a sé, perché l’eroe recita un copione dove il diverso dev’essere soggiogato e in ragione della sua fatica egli non possa conoscere altro che gloria.

E Polifemo chi è? E’ il ciclope, il pastore, mezzo cieco, diverso, peloso, sgraziato, comico nella sua goffaggine, “monstrum in fronte et monstrum in animo”. Si nota per bruttezza, è un essere immane che abita dentro una grotta, circondato da delle capre e dalla muffa di un tempo di cui è schiavo. Per il maestro di Roccagloriosa, Polifemo è il sole oscuro di Caravaggio, eroe di una storia mal narrata che pare immutabile. Muore delle sue piccole debolezze, della sua mastodontica assenza di intelligenza. E’ l’antieroe, peggio, è la carne di un seme inferiore che dev’essere martoriata e infine lasciata sola a marcire fuori scena.

Non ci ricorda nessuno questo perdente mitologico? Il Balbi conosce la risposta ed è certo che a questo punto la soluzione al quesito ha preso forma dietro agli occhi dei suoi osservatori: Ecce Homo! Ecco l’uomo per quello che realmente è! Un essere di carne e sangue, più debole delle sue debolezze, più solo della sua solitudine, destinato a morte certa, sempre col dubbio che questo suo camminare incontro alla sua fine non abbia alcun significato che trascenda le forme e la materia che intorno a lui inesorabilmente si deteriora.

Ecco l’uomo, ci ammonisce il Balbi, con il suo unico occhio, l’uomo convinto che il mondo sia realmente volontà e rappresentazione, l’uomo che non sa mettersi nei panni degli altri e seppur sofferente spesso non si cura di essere la causa della sofferenza altrui.

L’ideale estetico, di bellezza e di armonia nelle proporzioni, di acume e brillante ostentazione nei ragionamenti, dopo essere stato cullato in miti di gloria collettiva, ci riconsegna un uomo che ora si attesta a ben poca cosa. Un perdente cronico, uno sconfitto che si agita per evitare una fine inevitabile.

Ma quest’orco, in questa seconda vita che gli è offerta dal Balbi, pur apparendo limitato e spesso sgraziato e goffo, è pur sempre reale e in nessun modo idealizzato. Ecco l’icona pop di Polifemo creata dal maestro di Roccagloriosa, ecco che cosa rappresenta in realtà: la celebrazione della normalità, la commemorazione della maturità, quel tempo in cui ci si accetta per quel che si è, senza “perdersi in tributi alla gente o ai sogni”.

Polifemo viene innalzato ad icona, consegnandogli una nuova immortalità che non è più sinonimo di brutalità estetica o di barbarie morali, bensì di creatura normale, non più diverso e in quanto tale ripudiato. La sensibilità del Balbi ci ha consegnato nuove creature. I Polifemi sono ora esseri che affrontano i loro giorni a passi incerti, con timidezza, sicuri che il loro non è il destino noioso degli eroi.

Ecco il messaggio di questa nuova serie del Balbi: è Polifemo, così come lo abbiamo indagato, il vero protagonista di tutte le più importanti tele della storia dell’arte. Lo è perché la loro fama è dovuta al fatto che sono riuscite a raccontarci l’uomo, l’umanità, con i suoi limiti e la sua precarietà. Sostituire con Polifemo i protagonisti delle tele dei grandi maestri della storia dell’arte, significa ribadire l’oggetto e l’interesse ultimo dell’arte: raccontare l’uomo all’uomo, mostrare sempre il lato umano, tra i movimenti dei pennelli e gli strati del colore.

Questa nuova serie del maestro di Roccagloriosa affronta inoltre un quesito oggi molto discusso in psicologia: Non sarebbe auspicabile procedere a una interpretazione aggiornata e corretta della figura dell’eroe, che pervenga a una demitizzazione del mito, a un tentativo di scrivere una mitologia che non crei alienazione, frustrazione e sofferenza?

Il Polifemo del Balbi è un antieroe, ma non per vocazione, non per anticonformismo conclamato, ma per necessità. E’ l’icona di una nuova narrazione dell’uomo che tiene conto del suo essere animale, della sua inadeguatezza alla vita che ha ricevuto in dono, del suo desiderare sempre ciò che non ha, per poi annoiarsene appena lo ottiene. Balbi rilancia l’uomo come protagonista, ma non come eroe, come soggetto dell’azione ma non perno della stessa.

L’uomo ricollocato in un nuovo mondo balbista non lo deve necessariamente trasportare sulle sue spalle, non si deve curvare alla proiezione di gloria cullate da terzi, dal loro bisogno di individuare sempre un eroe. Il Polifemo di Balbi è l’uomo che ha fatto pace con la sua cupidigia, con la bramosia di essere altro e ora sa di essere speciale. Degli uomini è questo mondo. Degli uomini in quanto uomini, di nessun eroe.

Giovanni Rodini