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L’editrice di Mundi Live, la Dottoressa Margherita Chiara Immordino Tedesco, è stata ricevuta in Udienza da Sua Eccellenza Monsignor Antonino Raspanti, Vescovo di Acireale. L’incontro ha offerto l’occasione per parlare del profondo impegno profuso dal Vicepresidente per l’Italia meridionale della Conferenza Episcopale Italiana nel tessuto sociale della sua Diocesi. In particolare è emerso come Monsignor Raspanti abbia sempre cura e premura di stimolare i suoi fedeli a creare piccole imprese nel campo agricolo e turistico. Il Vescovo dello splendido comune siciliano, che è persona di squisita cultura, ha inoltre manifestato il suo interesse per i progetti che la Fondazione Mundi Live sta organizzando con la Fondazione Museo Bellini.

Nel suo stemma, ai piedi di uno scudo troncato, si vede una lista svolazzante caricata dal motto “Humilitas ac dulcedo”, umiltà e dolcezza. Entrambe guidano da sempre il cammino di Fede di Monsignor Antonino Raspanti, Vescovo di Acireale.
Umiltà e dolcezza sono un Habitus Animorum spesso molto distante dai sentimenti che albergano tra i cittadini siciliani. Non perché questi siano persone prive di delicatezza o di Ubris, ma perché da molto tempo i modelli comportamentali, quelli che creano l’immaginario della sicilianità, quando si declinano in certi ambienti, prendono la forma dell’arroganza, della violenza, quando non anche dell’illegalità.
Lo diceva bene Gesualdo Bufalino. “Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale; una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio”.
Sono almeno venticinque secoli che i siciliani portano sulle loro spalle il peso di magnifiche ed eterogenee civiltà. Tutta una lunga fila di genti venute da fuori, impastate con quelle che già sull’isola ci vivevano, hanno finito per germogliare e far crescere frutti acerbi come limoni e insieme dolci come le fragole di Maletto; tutta una varietà che benedice questa terra senza crescere altrove.
Monsignor Raspanti non ha dubbi e parla della sua terra come di un crocevia di aggrovigliate contraddizioni. La Sicilia, storicamente, è una regione che ha saputo produrre un tessuto sociale con buoni livelli culturali, una terra che ha avuto numerose eccellenze nel corso dei secoli. Poeti, scrittori, pittori e artisti in genere hanno ben fotografato l’isola, senza tacere della caratteristica che più la caratterizza, ossia una forte e antica contraddizione.
Purtroppo, accanto a queste testimonianze di primissimo livello, sia culturali che letterarie, convivono senza che si riesca a sradicarli, esempi di vita volgare, atroce e terribile.
Un lungo fiume di anime perse attraversa in tondo l’isola, talvolta straborda e strappa con violenza di morte vite di donne e uomini trovatisi troppo vicino al delirio degli eventi per potersi mettere in salvo. Questa manifestazione feroce di vita criminale, organizzata secondo logiche di sopraffazione e omertà, crea un’isola dentro l’isola.
Così la Sicilia diventa una zattera di pietra che prende la forma di un sistema di matriosche dove l’insularità crea un sentimento di fuga da una terra avvertita come troppo stretta, costringente e ingabbiante, dove non si può lavorare, non si può prosperare, dove quasi non si può respirare.
Dentro questo meccanismo d’isole che si recintano come i cerchi creati da un sasso lanciato nell’acqua, si resta spesso impigliati, quasi prigionieri di una forma mentis che finisce per creare radici che solo in apparenza sono sradicabili; tanto che ti puoi anche allontanare da questa terra, ma prima o dopo finisci sempre per farci ritorno.
Questa è la reale ambivalenza dell’insularità. Ed è qui, sopra queste rocce che galleggiano in mezzo al Mediterraneo, che i suoi abitanti hanno sviluppato una contraddizione tanto radicata, che richiederà un tempo lungo prima di essere divelta.
Come le favolose Muse del Pater Linguae Ennio (Musae, quae pedibus magnum pulsatis Olympum), così anche i siciliani muovendosi per l’isola la battono a un ritmo che alterna eccellenza a degrado, cultura del sapere e dell’amore contro barbarie d’oppressione dell’uno sull’altro.
I siciliani sono capaci, come la loro storia ben lo testimonia, dell’uno e dell’altro sentimento. Mentre dentro le stanze buie, lontane da occhi indiscreti, si celebrano i rituali di qualche capo mandamento, nella sala d’attesa dello studio di Monsignor Raspanti c’è una foto che ritrae il Giudice Rosario Livatino, un siciliano assassinato dalla Stidda per aver scelto le panche della giustizia e della legalità.
Tra quegli scanni, spesso scomodi e poco affollati, si è seduto anche Padre Puglisi, un sacerdote anch’esso figlio di quest’isola, ucciso da Cosa Nostra, il giorno del suo compleanno, per essere stato troppo zelante nel suo impegno evangelico e sociale.
Anche la foto di Don Pino è appesa in quella sala d’attesa che precede lo studio del Vescovo di Acireale. La scelta di testimoniare la via della pace e della giustizia, con i ritratti di due martiri della fede, rappresenta il desiderio di lotta contro la piovra, il desiderio di un’intera regione che vuole creare lavoro, che s’impegna per dar forma al futuro, che è pronta per iniziare a vivere, non solo per puntare a sopravvivere.
Entrambi questi uomini, che con quei ritratti si onorano, sono accomunati dalla voglia di non fare vincere la violenza, il male e l'oppressione. Entrambi questi testimoni di pace hanno creduto che questo cambiamento possa avvenire confidando in Gesù Cristo, il Figlio di Dio che ha vinto la morte ed è stato Testimone dell'Amore contro la morte.
Entrambi avevano questo pensiero e questo sentimento. E’ lo stesso sentire di chi non vuole più vivere tra i ruderi di una terra di confine, di chi non riesce più a essere l’isolano in una contea da Far West. Quei ritratti accolgono i visitatori del Vescovo di Acireale come farebbero due bandiere: quella della dignità siciliana e quella del riscatto di un intero popolo.
“In questa nostra terra”, afferma convinto Monsignor Raspanti, “è possibile vivere attraverso la cultura e il lavoro. Una società è sana se crea cultura e lavoro”.
Se è vero che la società siciliana è per la maggior parte pulita e viva, va anche detto che porta sulla propria pelle, sul proprio corpo, i segni di una pericolosa necrosi. Si tratta di punti necrotici, intervallati con embrioni di vera vita. Queste sono le due realtà presenti nella società siciliana.
Questa terra ha un dolore sordo e profondo che i suoi abitanti sono soliti mascherare con abilità, ma che spesso si manifesta in una patina di pessimismo che consuma la possibilità di una vita nuova, di un’esistenza serena, libera da questa terribile necrosi.
Ogni siciliano ha la capacità di nascondere le cose belle e di enfatizzare i suoi problemi. Questo è il dolore che abbiamo dentro di noi e che non vuole esplodere. Noi restiamo così, impassibili osservatori di un corpo, dove si alternano punti di luce a pustole di morte.
Monsignor Raspanti è stato ordinato Vescovo nel 2011 ed è riuscito ad amministrare con saggezza la sua Diocesi in un momento molto difficile sotto il profilo socio economico.
All’inizio il Monsignore ha trovato la città e il territorio diocesano in forte sofferenza, a ragione di due ondate di eventi negativi.
La prima ondata, che ha colpito particolarmente Acireale città, è stata la crisi dell'economia agrumicola, limoni in particolare, che è scoppiata sostanzialmente alla fine degli anni 80. La città, che aveva una sua forza di produzione e di commercio degli agrumi, è crollata e con essa anche il territorio.
L'unica area, che si è ritrovata con una forte tendenza inversa, è quella montana. Lì c’è stata una crescita notevole per via del vino, che è tornato di gran moda in quella zona. In tutte quelle terre, i guadagni hanno ripreso a migliorare.
Si è assistito così alla nascita di decine e decine, forse un centinaio, di cantine nuove, con un’imprenditoria che non è locale, per lo meno in gran parte arriva da fuori, e che offre tanti posti di lavoro, sia a persone del luogo che a tanti immigrati.
La seconda ondata di eventi negativi, si è abbattuta sulla Diocesi in concomitanza con la crisi del 2008. Il crollo finanziario americano, spalmato a livello intenzionale, ha avuto conseguenze pesantissime anche in Sicilia. “Proprio nel periodo del mio arrivo, parecchie aziende di vario genere hanno chiuso i battenti, lasciando in cassa integrazione e, di fatto senza lavoro, migliaia di persone”, ricorda Sua Eccellenza.
Le cose, poi, sono in parte cambiate perché è mutata l’offerta nel centro di Acireale. I vecchi negozi sono scomparsi quasi tutti e sono apparse alcune nuove attività legate al cibo e al tempo libero. Tuttavia non si tratta di grandi cose, perché una vera attività industriale o agricola ha stentato a rinascere. In seguito è intervenuta anche la pandemia e quindi da due anni le cose sono andate ribasso.
Il territorio di Acireale e tutta l’area lì attorno è in cerca di un’identità. Nelle more di questa perenne indecisione, si oscilla tra velleità da meta turistica e il desiderio di avere una realtà agricolo industriale capace di fare da traino all’economia di tutta questa regione. Di fatto la vocazione del territorio è ancora troppo incerta e lo è anche la guida politico-amministrativa. Manca assolutamente una strategia a lungo termine.
Questo, in vero, accade un po' dappertutto in Italia. Ma in questa regione, all’indecisione si aggiunge una grandissima paura del futuro, un timore tanto radicato da mandare i figli lontano da casa, anche all’estero, tanto per studiare, quanto per lavorare. La conseguenza di questi massicci trasferimenti è l’accentuarsi di un’antica emorragia che rappresenta un enorme impoverimento per tutta l’isola.
Tra le cose per cui Monsignor Raspanti si è più speso, c’è il tentativo di dare forza alla cultura dell'impresa, soprattutto tra i giovani ma non solo. “Naturalmente, io non sono nel governo, non sono il sindaco e soprattutto non dispongo di fondi con cui poter fare iniezioni di cultura d'impresa”, afferma il Vescovo di Acireale.
Tra i tanti importanti traguardi che Sua Eccellenza è riuscito a raggiungere, c’è la creazione di un rapporto stabile con l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Il risultato è eccellente, se si pensa che, a seguito dell’interessamento di Monsignor Raspanti, l’Università milanese ha aperto un Contamination Lab proprio ad Acireale.
Si tratta di uno spazio di coworking dell’Università Cattolica che è dedicato esclusivamente ad attività auto-imprenditoriali. Il progetto, nato all’interno del Centro per l’Innovazione dell’Ateneo (ILAB), mira a promuovere la cultura dell’imprenditorialità e dell’innovazione, sfruttando nuovi modelli di apprendimento e stimolando un approccio interdisciplinare.

Lo scopo è quello di ricercare un accollo per sostenere i ragazzi che abbiano un'idea per iniziare una start up. Nell’arco di sei mesi o un anno, i ragazzi vengono educati a programmare il lavoro che sosterrà la loro startup.
Il punto però, è che anche con simili opportunità, gli studenti siciliani sono svantaggiati rispetto ai loro colleghi del nord Italia. A Milano, finiti i sei mesi o l’anno, i ragazzi si ritrovano a lavorare in un tessuto sociale e imprenditoriale che permette loro di essere maggiormente operativi. L’esistenza di una fitta rete di aziende permette loro di trovare i soldi che servono per sostenere le loro startup.
In Sicilia, purtroppo, la realtà è molto diversa. Il territorio, sotto questo profilo, è del tutto infruttuoso. Oltre al ConLab, occorrerebbe creare le prime linee guida per permettere loro di affrontare concretamente questo percorso.
Occorre approntare rapidamente questo tessuto che in Sicilia ancora manca, perché il giovane da solo non ha né la forza, né il coraggio o i soldi e la capacità per riuscire a dare forma alle sue idee imprenditoriali.
Qui manca proprio la rete, il tessuto indispensabile per permettere ai nostri giovani di emanciparsi attraverso il lavoro. Anche gli imprenditori con esperienza, quelli che da decenni sono in attività, non hanno la mentalità per fare formazione o per sostenere i loro colleghi più giovani.
Monsignor Raspanti, che ha creato la rete di persone, enti e istituzioni da cui è nato il ConLab, è convinto che il gap tra nord e sud sia innanzitutto di conoscenza: se non ci sono adulti che hanno già realizzato attività imprenditoriali e sono testimoni concreti, i giovani da soli non riusciranno a spiccare il volo.
Formare una cultura d’impresa richiede anche molti soldi. Occorre, in primis, che si possano impiantare una serie di rapporti capaci di consolidare le imprese che già esistono, creando un minimo di mentalità imprenditoriale tra gli operatori più esperti.
In Sicilia c'è molta diffidenza. Se si propone a un imprenditore di convertire la sua azienda in una Spa, in un qualcosa di più grande, raramente si riesce a convincerlo. La gente ha troppa paura di perdere il controllo di ciò che è suo e così non si riesce a crescere.
Anche quando si cerca di dare una mano a un imprenditore siciliano, molto spesso non si approda da nessuna parte, perché la gente ha sempre paura che ci sia un artificio, un raggiro, una qualche truffa ordita per spogliarla dei suoi beni.
Nonostante tutti gli anni d’impegno in prima linea, per rilanciare l’economia della sua terra, Sua Eccellenza continua a cercare d’essere un canale capace di portare avanti idee, sostegni e possibilità. Il suo lavoro è fatto con il cuore, un’attività di seminatura, nella speranza che un giorno la realtà diventi più profittevole per tutti, per i giovani, come per chi è imprenditore da generazioni.
Molte cose sono state fatte. La Fondazione città del fanciullo, tutta la formazione e le innumerevoli iniziative, né sono un vivido esempio. Inoltre è stato aperto un museo che oggi è riconosciuto dalla Regione Sicilia.
Molto resta ancora da fare. Quest’opera di costruzione di un tessuto socio economico capace di creare lavoro e migliori prospettive per l’isola, non è dissimile dal lavoro profuso per edificare una cattedrale: chi inizia, raramente riesce a vedere il completamento della costruzione.
In questo consiste gran parte della nostra vita: nel piantare semi che, cresciuti in alberi, faranno ombra a chi verrà dopo di noi. Così è stata anche la vita di Monsignor Raspanti, un’esistenza al servizio della comunità.
Attorno ai sedici o diciassette anni, mentre si divideva tra gli studi e i pomeriggi di pallacanestro all’oratorio dei salesiani di Alcamo, la sua città natale, il giovane Antonino iniziò a frequentare la chiese dei Gesuiti, trascorrendo così i fervidi e ruggenti anni ’70.
Mentre in molti erano alle prese con le contestazioni politiche, per meglio dire con le lotte e combattimenti asperrimi di quegli anni là, il futuro Monsignore ebbe l’opportunità di compiere dei ritiri e di essere così sensibilizzato soprattutto alla preghiera e al silenzio.
In un mondo di caos e di continue lotte e rivendicazioni di piazza, il giovane Antonino si decise per una pratica della silenziosità durante le sue giornate private; brevi oasi di silenzio che all’inizio duravano un’ora per poi guadagnare maggior e più profondo spazio dentro di lui.
“Tutto questo ha scavato dentro di me e mi ha fatto diventare chiara la possibilità che io impiegassi tutta la mia vita, da una parte proprio per il bene della gente, ma soprattutto adorassi Gesù Cristo che mi venne davanti come la verità. In un tempo di opinioni e lotte sociali io ero molto colpito dal fatto che dopo i grandi proclami, la vita di quelli che gridavano negli scioperi e nelle battaglie, la loro esistenza spesso era molto incoerente. Era una vita spesso violenta, in quell’era di lotte armate, e questa incoerenza così evidente mi disturbava molto”.
Nel rimembrare l’inizio del tutto, Sua Eccellenza ci regala il percorso di Fede che lo fece decidere per una vita al servizio di Gesù: “Fu allora che capì che soltanto la via di Gesù Cristo era una via di autenticità e di verità, un’esperienza che vivi e che non ti limiti a proclamare nelle piazze. Si poteva attraverso Cristo rispondere alla tua coscienza, non alla pubblica opinione, sempre alla ricerca degli applausi e del successo. Si rispondeva solo a colui che ti può guardare dentro e sa chi sei davvero tu, e allora tu non puoi più mentire a te stesso. Questo mi ha molto toccato e da questo è venuto fuori la possibilità che io intraprendessi questa strada così come con amore e felicità ho poi fatto. Ed eccomi qua”.
Si eccolo qua quel “Humilitas ac dulcedo” che una volta in più ci ricorda che spesso dimenticare il dolore è difficilissimo, ma dimenticare la dolcezza lo è ancora di più.