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“Vorrei che mi tatuassi una falena”. Sono le tre di notte e sono a una
cinquantina di pagine dalla fine de Lo scarabocchio, il secondo
romanzo di Cinzia Nazzareno. Prima che non me ne restino altre da
girare, chiudo il libro e guardo fuori dalla finestra. Da lì, la luce
del mio salotto si riversa in strada e invita eleganti farfalle
crepuscolari a una festa che non ci sarà. Una di loro si presenta
elegantissima, con il suo mantello alato color della cenere. Il suo
entusiasmo, però, cambia presto in desolazione, quando scopre che
resterà chiusa fuori di là dalla finestra.
Sarà strano, per lei, vedere la luce che ha sempre sognato, dietro a
questo vetro spesso. Sarà come essere volata davanti a una caraffa
traboccante, dopo un’esistenza d’arsura, per poi scoprire che l’acqua
è per lei in vendita a un prezzo che non potrà mai permettersi. Tutti
gli altri, intanto, non pagano e comodamente si dissetano ogni volta
che ne hanno voglia.
Che ingiustizia le dovrà apparire, costatare come sia del tutto
normale per chi è dentro la stanza, muoversi nella luce e sentirne il
calore, senza curarsi della malasorte che l’ha castigata, impedendole
di unirsi a noi.
La falena morirà questa notte, senza essere riuscita a prendere parte
a questa nostra vita nella luce. Quando domani mattina aprirò la
finestra per cambiare l’aria, sarà troppo tardi e forse troverò il suo
piccolo corpo senza vita sul davanzale, ci soffierò e lei scenderà
leggera dal terzo piano verso l’oblio.
In questo libro, la falena si chiama Genny e, quando decide di farsi
tatuare questo piccolo insetto sul polso destro, si trova a Roma,
dov’è stata costretta dal padre a trasferirsi, per nascondersi lontana
dal piccolo borgo siciliano in cui è nata.
Da nascondere c’è ben poco, niente che gli altri non abbiano già
capito e alcuni già accettato. Genny è nata sbagliata, con un difetto
che non si riesce a correggere e che, peggio ancora, lei non ha alcuna
intenzione di correggere. Così, si dirige dove il suo istinto le
suggerisce, sicura che non ci sia niente di male a diventare quello
che lei già sente di essere.
Questo suo percorso di ragazzina che diventa donna, è bruscamente
interrotto quando il padre la sorprende in atteggiamenti equivoci con
un uomo di molto più vecchio di lei. Un uomo volgare, dall’aspetto
orrendo, grottesco nella sua bestialità e già nemico antico della sua
famiglia.
Cacciata di casa, dunque, si ritrova nella capitale a casa della
sorella e lì cerca di riprendere il cammino verso la sua idea di
felicità. Lontano dagli occhi dei genitori, Genny diventa donna, quel
genere di donna che vive d’amore senza calcolarne le conseguenze.
Poi le cose precipitano e Genny si ritrova a pagare un prezzo
altissimo per aver inseguito quel suo desiderio di felicità. Le
costerà molto caro essere nata falena e aver desiderato trasformarsi
in farfalla, perché questo è il suo difetto, qui sta la sua anomalia.
Genny è per davvero lo scarabocchio di una farfalla, se con
quest’ultima s’indica il sesso che fa di una creatura una femmina.
Genny è nata maschio, o per lo meno dentro il corpo di un maschio, ma
ha il respiro, lo sguardo e lascia impronte da donna.
Lo scarabocchio è il secondo romanzo di Cinzia Nazzareno e racconta la
storia di una famiglia degli anni ’70 che, nel piccolo borgo siciliano
in cui vive, dovrà far i conti con un figlio che cresce sentendosi
donna.
In una terra che storicamente è uno spartiacque tra Vecchio Continente
e Medio Oriente, dove la condizione di chiunque non nasca maschio è
tuttora spesso sventurata, il paradigma della mascolinità sicula era
allora rappresentato dalla figura del padre padrone, del dominus che
sottometteva la sua famiglia e del macho che si vantava delle sue
conquiste di femmine con gli altri maschi.
Era il tempo in cui una ragazza come Genny non poteva vivere senza
essere additata di continuo, sbeffeggiata o peggio abusata o picchiata
per questo suo essere l’opposto di quel che appariva.
Si dice che “una farfalla che ti si posa un attimo sulla testa, ti
rende tanto più ridicolo quanto maggiore è la sua bellezza”. Mi piace
pensare che anche questa sia una buona chiave di lettura per questa
“Pastorale siciliana” raccontata dalla Nazzareno. In fondo, la colpa
di Genny era mettere in ridicolo quel mondo arcaico e maschilista,
semplicemente con la sua presenza, con il suo essere felice e fiera
della sua unicità.
Giovanni Rodini